Placemaking. Architettura dell’informazione e luoghi
I luoghi non sono una mera infrastruttura fisica ma sistemi complessi che elaborano informazioni. La diffusione capillare di dispositivi mobili, sensori e sistemi intelligenti fornisce oggi ai luoghi una capacità potenziata di raccogliere, processare e reagire all’informazione. I luoghi diventano così 'senzienti', capaci di interagire.
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I luoghi come “palinsesti”
Qualunque luogo – e tanto più quel complesso strutturato che è la città – può essere letto come architettura dell’informazione. Luoghi e città infatti non sono una mera infrastruttura fisica e sociale ma sistemi complessi che elaborano informazioni piuttosto che farle semplicemente circolare.
La diffusione capillare di dispositivi mobili, sensori e sistemi intelligenti fornisce oggi ai luoghi una capacità potenziata di raccogliere, processare e reagire all’informazione. I luoghi diventano così intelligenti e capaci di interagire. L’ecosistema urbano produce “miliardi e miliardi di traiettorie”, “le microstorie delle persone in relazione agli oggetti” (Bruce Sterling, La forma del futuro): attraverso l’internet delle cose, queste storie diventano tracciabili e registrabili, divengono traiettorie incorporate negli ambienti materiali per futuri riusi.
I luoghi sono palinsesti dove si depositano le storie delle interazioni delle persone con l’ambiente, gli oggetti, le altre persone.
In questa prospettiva i luoghi divengono anche palinsesti, tavole in cui si depositano “gli strati di una scrittura che è possibile cancellare, scrivere e riscrivere più e più volte, come se si fosse perennemente alle prese con la stesura di una minuta”; essi divengono “sede di un palinsesto mnemonico”, e le sue topografie “veri e propri tracciati emozionali” (Giuliana Bruno, Pubbliche intimità, pp. 20, 23).
L’architettura dell’informazione fornisce la chiave per modellare questo complesso gomitolo d’informazioni, per sottrarlo all’oblio e soprattutto dotarlo di significato, renderlo “azionabile”. Così, l’architettura dell’informazione ha la capacità di trasformare questi spazi in luoghi abitabili, arricchendo l’interazione uomo-ambiente e uomo-informazione.
Linee guida
Proverò qui ad abbozzare alcune meccaniche degli smart o augmented environment. Alcune linee guida capaci di spiegare in che modo il matrimonio fra atomi e bit, fra ambienti e ubiquitous computing può essere sfruttato per migliorare la user experience dei luoghi.
Cosa succede quando il design guarda a distribuire potere computazionale all’interno di un ambiente fisico? Quali nuove possibilità di azione potranno offrire quegli spazi in cui siano stati introdotti componenti interattivi ubiquitari? Che tipo di relazioni e nuove forme di “fare senso” si possono incentivare? […] Del resto, riconoscer[e] l’importanza [della relazione tra spazio e luogo] ha portato a una svolta nel campo dell’Information Technology e della progettazione di interfacce, facendo scivolare l’interesse dei ricercatori dalla stazione del pc alla complessità degli ambienti fisici. Il risultato è consistito in un notevole ampliamento di prospettiva, che vede un passaggio da quella “tradizionale” del design dell’interazione, mondo a lungo avulso all’Architettura, alla visione più globale dell’Experience Design. (Mariangela e Maurizio Scalzi, Tra architettura e interaction design).
Consiglio di leggere integralmente l’articolo di Mariangela e Maurizio Scalzi: anche se non recentissimo è di un’attualità straordinaria e spiega con grande chiarezza l’intreccio tra spazio fisico e spazio digitale.
Placemaking
Rendere visibili le storie delle nostre interazioni con i luoghi – le microstorie di cui parla Sterling – è il principio chiave sotteso a molti progetti di architettura dell’informazione pervasiva. Questo è una sorta di prerequisito per abilitare le altre linee guida che seguono. Significa salvare tracce, percorsi, racconti altrimenti volatili, renderli espliciti e poterli “usare”. Significa rendere leggibile e scrivibile il territorio. Significa trasformare lo spazio (entità percettiva) in luogo (entità esperienziale): infatti non c’è luogo senza esperienza e non c’è esperienza senza racconto.
Sono proprio le nostre interazioni con gli spazi a trasformare gli spazi in luoghi. La distinzione fra spazio e luogo può sembrare sottile ma è in realtà cruciale.
Quello che dunque ci interessa sostenere in questo ambito progettuale è la rilevanza del concetto di luogo, e, di conseguenza, un approccio esperienziale al design degli ambienti che ogni giorno abitiamo. Non c’è dubbio che il modo di progettare gli spazi fisici, architettonici e sociali influenzi notevolmente il comportamento degli individui, stimoli o inibisca le loro attività. Inoltre, il modo in cui sono progettati gli spazi la dice lunga sulle caratteristiche culturali e sociali di una comunità e sui fenomeni di trasmissione e sedimentazione della conoscenza delle comunità stesse. In pratica permette di rintracciarne l’identità. Lo spazio, dunque, non è (solamente) un concetto geometrico. Lo spazio appartiene alla percezione laddove il luogo appartiene al mondo dell’esperienza (Mariangela e Maurizio Scalzi, Tra architettura e interaction design).
Correlazione
Mettere a sistema fra loro flussi informativi che sono in origine separati e non dialogano fra loro; correlare fra loro le diverse storie che intersecano un luogo: ciò consente di generare conoscenza da ciò che è solo informazione.
Lo ubiquitous computing potenzia il concetto di rete già implicito nei luoghi complessi come la città, la piazza, gli edifici… Restituisce agli ambienti la loro “ombra” di informazioni e contenuti che, pure se concettualmente legati a un certo spazio, si depositano altrove e restano separati da esso. È il concetto di ombra d’informazione (information shadow) elaborato da Mike Kuniavsky.
In internet esiste un’enorme quantità di contenuti generati dagli utenti per quasi tutti i prodotti. Pressoché ogni cosa è stata recensita, discussa, fotografata […]. Prima dell’avvento di internet, poco di questa vita sociale era disponibile; ora ce n’è una marea.
Le informazioni digitali relative a un oggetto possono essere chiamate la sua ombra d’informazione. Quasi tutti gli oggetti creati industrialmente hanno ombre ricche d’informazione, anche se queste ombre sono invisibili ai loro proprietari e utenti. […]
Gli oggetti quotidiani sono stati separati per lungo tempo dalla loro ombre d’informazione, come Peter Pan dalla sua vera ombra. La difficoltà di trovare, organizzare e accedere a queste informazioni ha mantenuto divisi il mondo degli oggetti dal mondo delle ombre d’informazione. […] Per i consumatori, l’internet degli oggetti restituisce all’oggetto la sua ombra d’informazione, così come Wendy fa con l’ombra di Peter Pan (Mike Kuniavsky, Smart Things, pp. 71-73).
Resilienza
Resilienza – dal lat. resiliens, part. pres. di resilire ‘saltare indietro, rimbalzare’ – è un termine, che può assumere diversi significati a seconda del contesto. In questo contesto, il più appropriato è quello che la parola assume nelle scienze naturali e nei sistemi complessi:
in ecologia e biologia la resilienza è la capacità di un ecosistema, inclusi quelli umani come le città, o di un organismo di ripristinare l’omeostasi, ovvero la condizione di equilibrio del sistema, a seguito di un intervento esterno (Wikipedia).
Storie e information shadow possono essere impiegate per rendere i luoghi sensibili (per così dire), e perciò capaci di reagire (di essere resilienti, appunto) adattandosi o rispondendo agli eventi di cui sono teatro. In termini di design questo significa che le storie e le interazioni che avvengono dal basso possono essere impiegate per bilanciare e migliorare il design che gli architetti (dell’informazione e non) creano dall’alto. L’uno bilancia l’altro consentendo al sistema una maggiore flessibilità.
“Onlife”. Progettare esperienze tra fisico e digitale