Il museo come esperienza. Il Cooper Hewitt museum
Da spazio di conservazione a luogo di esperienza, da read-only a scrivibile: l'evoluzione del museo in senso partecipativo offre indicazioni preziose per lo (user) experience design in generale.
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Sull’esperienza museale sono apparsi recentemente articoli molto belli che hanno riacceso riflessioni su temi a me cari. A fare da detonatore, il caso del Cooper Hewitt Smithsonian Design Museum di New York, che ha da poco rinnovato la propria esperienza di visita attraverso l’adozione dell’internet of things.
Cooper Hewitt: The New Experience
L’esperienza come processo
L’esperienza è un processo dinamico che evolve nel tempo e nelle spazio, che comincia prima della visita e prosegue oltre la visita stessa. Al Cooper Hewitt sono molto consapevoli di questo, lo spiega bene Luisa Carrada.
[Al Cooper Hewitt] Tutto comincia infatti prima della visita, che si può pianificare sul sito del museo seguendo le suggestioni più diverse, perfino le sfumature di colore che accomunano i diversi oggetti o le loro dimensioni. Prosegue nel museo, dove si gira con una penna interattiva che permette di fare un sacco di cose, come disegnare o salvarsi gli oggetti. […] Alla fine si torna a casa, ci si collega al sito e si ripercorre e si salva la ‘propria visita’, completa di tutto ciò che abbiamo ammirato e creato, completa di appunti (Luisa Carrada, If Book Then: i libri passano, le storie no).
Luoghi scrivibili
La nostra interazione con luoghi e persone genera storie. Ma in assenza di qualcuno o qualcosa che le raccolga e ne prolunghi l’esistenza, il più delle volte queste storie sono destinate all’oblio. L’internet of things rende più facile salvare a futura memoria i tracciati della nostra interazione col mondo. Mondo che da read-only si trasforma in read-write (l’espressione è di Lawrence Lessig). I luoghi diventano palinsesto, tavole in cui si depositano gli strati di una scrittura che è possibile scrivere e riscrivere più volte, le sue topografie “veri e propri tracciati emozionali” (Giuliana Bruno, Pubbliche intimità).
Registrare queste storie, renderle disponibili a futura memoria, renderle manipolabili, schiude opportunità infinite, è una ricchezza enorme.
I musei sono depositi di storie, le mostre il modo per narrarle, la tecnologia mette a disposizione dei visitatori nuovi strumenti con cui costruire il proprio percorso, fino alla possibilità di tenerne traccia grazie a una ‘guida’ digitale personalizzata (Susanna Legrenzi, Una penna e una stanza per giocare).
Co-design
Fino ad oggi, nella gestione museale ha prevalso un modello progettuale top-down: un design calato dall’alto dal curatore e che il pubblico si limita a usare così com’è. La cultura read-write corrode questo scenario, perché porta con sé un ruolo attivo del pubblico, che da utente si trasforma a sua volta in autore.
Lo spazio disegnato dall’alto (top-down) viene così rimodellato dal basso dalle persone (bottom-up), secondo un paradigma di azione e retroazione continua che modifica l’impianto preesistente. Assorbire in modo deliberato le dinamiche bottom-up all’interno dello schema top-down rende il museo resiliente, migliora l’esperienza di visita; consente anzi esperienze plurime, ciascuna ritagliata su misura del singolo. Si innesca così un processo di design permanente, iterativo e partecipato.
“Onlife”. Progettare esperienze tra fisico e digitale
Misurabilità
Questa interpretazione del museo offre vantaggi non solo al visitatore, ma anche all’organizzazione. Poter monitorare in tempo reale il comportamento del pubblico, le traiettorie e i risultati dell’esperienza di visita significano possibilità di analisi profonda, valutazione e miglioramento continuo. Significano in una parola misurabilità.
Per approfondire
Architettura dell’informazione e musei