Architettura dell’informazione e musei

Il museo è un luogo in cui si vive un'esperienza, e un ambiente informativo condiviso: ecco quindi che il museo può essere letto e progettato anche come architettura informativa.

Lettura: 3 minuti

Un articolo sul Tafter Journal esplora i nessi fra architettura dell’informazione e design museale. L’articolo è un lavoro a più mani di Elisa Mandelli, Andrea Resmini e chi scrive.

Gli argomenti dell’articolo

  1. Cos’è l’architettura dell’informazione
  2. Il problema della flessibilità: personalizzare l’esperienza di visita
  3. Atomi e bit: due facce della stessa medaglia
  4. Il museo come “palinsesto mnemonico”
  5. “L’ombra d’informazione”
  6. Conclusioni: co-design in un mondo scrivibile

Ecco qualche estratto dell’articolo.

L’architettura dell’informazione

Più che una disciplina a sé stante, l’architettura dell’informazione costituisce un sapere di confine che si muove in modo complesso fra discipline più classiche come la bilblioteconomia, la linguistica e l’architettura, e discipline più nuove come la scienza e la teoria dell’informazione, l’ergonomia, l’information retrieval. In estrema sintesi possiamo definire l’architettura dell’informazione come “il design strutturale di un ambiente” per favorire orientamento, trovabilità e significato.

Flessibilità: personalizzare l’esperienza di visita

Per quanto ben curata, l’organizzazione delle opere e la loro contestualizzazione non sarà mai tale da soddisfare tutte le diverse tipologie di pubblico e le diverse esigenze. L’information seeking behavior (la disciplina che studia come le persone ricercano l’informazione) ci insegna infatti che individui diversi attuano strategie di ricerca differenti perché hanno bisogni e obiettivi informativi differenti. Anche lo stesso individuo, in tempi diversi, adotta strategie differenti perché lo scopo della ricerca è differente. Così, l’architettura dell’informazione sostiene che un buon sistema informativo (e da questo punto di vista anche il museo lo è) dovrebbe essere flessibile, capace cioè di adattarsi a questa pluralità di comportamenti di esplorazione o ricerca messi in atto dal pubblico sotto la spinta delle varie esigenze.

Atomi e bit: due facce della stessa medaglia

Come certe architetture di Borges o Calvino, museo e opera si stratificano, divengono universi mobili e fluidi, capaci di stimolare e accogliere molteplici opzioni di visita e di esperienza, di cui soltanto una (piccola) parte è quella prevista (costretta) dall’ordine fisico delle sale e delle opere.

L’internet delle cose e i dispositivi mobili possono essere concepiti come uno strato informativo aggiuntivo fatto di bit che si sovrappone a quello fisico fatto di atomi: questa sinergia consente di arricchire l’esperienza di visita, permettendo a ciascuno di ritagliarsi percorsi su misura e di ricevere informazioni in linea con i propri obiettivi. Oggi sono molti i musei che offrono al visitatore una rete di possibili tracciati tra i quali è libero di scegliere, esplorando autonomamente e in base alle proprie esigenze i materiali, e attribuendogli un senso a partire da percorsi interpretativi individuali. Un museo adattivo dovrebbe permettere di

  • personalizzare il percorso di visita (in base al tema, al livello di approfondimento che si desidera, al tempo a disposizione);
  • ricevere consigli e correlazioni su misura (il meglio di, opere correlate a quella corrente e così via);
  • ritrovare e ripercorrere facilmente tragitti già compiuti (da sé stessi o da altri).

Il museo come “palinsesto mnemonico”

I luoghi sono usati come cera. Essi serbano gli strati di una scrittura che è possibile cancellare, scrivere e riscrivere più e più volte, come se si fosse perennemente alle prese con la stesura di una minuta. Sono la sede di un palinsesto mnemonico. […] il site-seeing cinematografico, al pari di quello museale, disegna mappe particolarmente mobili: le sue topografie sono veri e propri tracciati emozionali. […] Per certi versi, allora, i sempre più numerosi intrecci filmici tra gallerie e sale cinematografiche sono riusciti a reinventare […] parti del processo immaginario che, nel 1947, André Malraux chiamò musée imaginaire: un’idea sconfinata di produzione fantastica che, nella traduzione inglese, si è trasformata in «museum without walls» (Giuliana Bruno, Pubbliche intimità).

È possibile spingerci ancora oltre nella flessibilità, ipotizzando non solo percorsi pensati dall’alto (top-down) da esperti o storici dell’arte (i progettisti o gestori del museo), ma anche percorsi creati dal basso (bottom-up) dagli stessi visitatori. Se le interazioni del pubblico con l’ambiente-museo sono preservate in qualche forma, diviene allora possibile immaginare un loro recupero e riuso per arricchire e personalizzare ulteriormente l’esperienza di visita.

Questo intende Giuliana Bruno quando parla dei luoghi come palinsesti mnemonici. I flussi e le interazioni delle persone all’interno degli ambienti trasformano effettivamente questi ultimi in testi, in “architextures“, paesaggi e mappe emozionali: allo spazio fisico viene quindi a sovrapporsi uno spazio esperienziale frutto dell’interazione del pubblico con lo spazio medesimo. In questo senso, le persone agiscono come penne: esse scrivono e riscrivono di continuo (come in un palinsesto, appunto) le storie delle loro relazioni con l’ambiente, modificandolo.

L’articolo completo

Architettura dell’informazione e design museale, Tafter Journal, 37 (luglio 2011).